Diritti e integrazione. Due mamme "speciali" raccontano
















«I miei bambini parlano poco e si lamentano poco. Sono preparati e consapevoli del fatto che nel mondo c’è violenza e paura nei confronti del “diverso”. Se ripenso a quando ero piccola io, non so quanto le cose siano cambiate. Forse sono cambiate poco e forse qualcosa si è proprio fermato».

Mi racconta A. una mamma di origini Eritree a cui ho chiesto un’intervista su un tema delicato, scottante, e certo difficile. Com’è essere mamma dalla pelle scura oggi a Bologna?

A. ha scelto di mettersi in gioco, sopratutto dopo che le ho spiegato che volevo intervistarla per commentare con lei la carta dei diritti dell’infanzia.

La carta compie gli anni il 20 novembre. E’ un documento importante e vasto che appartiene al mondo intero o quasi. La leggiamo con un’altra mamma a cui ho chiesto di raccontarci la sua esperienza.

C. non è visibilmente “diversa”, alla richiesta d’intervista mi ha accolta con il suo sorriso di sbieco e lo sguardo un po’ canzonatorio. Lei è una mamma speciale per la composizione della sua famiglia, che è formata da due donne e una bambina.

«Io e lei non stiamo neanche più insieme… forse non siamo rappresentativa di niente, forse ti conveniva chiedere l’intervista ad un genitore delle famiglie arcobaleno.»

Ma la mia doppia intervista non vuole rappresentare qualcuno in genere, vuole raccontare la storia di due mamme speciali.


Il mio incontro oggi è con queste due mamme. E vorrei raccontare le loro difficoltà ad essere ciò che sono tutti i giorni qui a Bologna con i loro bambini, e nulla più.

Due mamme a Bologna

Così un po’ intimorite e a disagio ci avventuriamo in domande e risposte. Le parole scorrono lente mentre sorseggiamo caffè in una fredda mattina di novembre. Inizia A.

«Sono arrivata in Italia all’età di sei anni. Io, mia madre e mia sorella abbiamo raggiunto mio padre che era immigrato cinque anni prima. E’ stato difficile. Difficile sopratutto congiungere quello che mi aspettavo di trovare, con quello che c’era davvero. In cinque anni tutti siamo profondamente cambiati, noi bambine ma anche i miei genitori»


Bambini in convitto

A. lentamente continua. «Papà faceva il vino in un’azienda agricola in Puglia. Presto fui mandata a studiare la lingua a Bari, su consiglio dei proprietari terrieri. Di giorno frequentavamo una scuola pubblica, di sera alloggiavamo in un convitto di suore. Lì c’erano 50 bambini. Alcune situazioni erano molto drammatiche. C’erano bambini abbandonati, altri in affido, noi tutto sommato eravamo fortunate. In Puglia ho vissuto situazioni difficili ma ho trovato anche tanta solidarietà, molto calore umano. A 21 anni ci siamo trasferiti a Bologna. Ho fatto fatica ad ambientarmi e ancora oggi, dopo vent’anni, quasi tutte le mie amiche sono meridionali. Con i bolognesi trovo distanza, diffidenza e poco di quel calore umano che ho trovato al sud».

Crescere a Bologna

E i tuoi figli , chiedo, come stanno i bambini a Bologna? Sono accolti? «I miei bambini vivono quello che vivo anch’io. Sono spesso nella posizione di dover dimostrare qualcosa, di dover affermare me stessa come individuo. Al colore della pelle si associa uno stereotipo. E se tu per qualche ragione, sei fuori da quell’idea metti a disagio. In molti pensano che solo perché sei nero e vieni da una altro paese allora, sei povero, anche un po’ ignorante e non conosci i tuoi diritti. Agli sportelli pubblici, per esempio, quando vado a fare documenti i dipendenti non si fidano delle informazioni che trasmetto loro». A questo punto fa una pausa poi guardandomi continua «Se non volessi sentirmi diversa, se non volessi subire discriminazioni, farei semplicemente le valige e andrei da un’altra parte, in Svezia o forse in Usa. Ai miei figli ho insegnato ad abbozzare ma anche a difendersi».

Crescere con due mamme

A. e C. si conoscono da anni. Insieme hanno fatto una percorso comune alla scuola d’infanzia. Entrambe hanno cambiato scuola perché incompatibile con le loro situazioni di vita e soprattutto idee. Chiedo di raccontarmi cos’è successo, un paio di anni fa, in una scuola d’infanzia che a Bologna è molto apprezzata. C. senza pensarci troppo mi presenta un libro «Questo era il testo di scuola per bambini di tre anni. Penso che faccia capire molto bene l’ambiente dove eravamo capitate».

Sfoglio il testo che si sembra arrivare dagli anni ‘50. I maschi usano grembiulino azzurro e le femmine quello rosa, la famiglia è composta da una mamma bionda e pacata, papà buono e simpatico, un maschietto che gioca con le macchinine e la femminuccia che gioca alle bambole. C. racconta «Quando in mailing list ho fatto notare che forse il libro, non era rappresentativo della realtà che ci circonda, mi hanno presa per pazza. Chiariamo. Non ci sono mai stati discorsi apertamente razzisti o discriminatori. Le maestre non erano minimamente pronte ad accogliere una famiglia diversa da questa illustrata nel libro, figuriamoci come potevano reagire davanti alla nostra! Non si è trattato solo del libro, cantavano delle canzoncine! Come “la bella cinesina nel vaso di porcellana” o peggio ancora ciucimbala canzone del ventennio fascista e chiaramente razzista. Per di più in una classe dove la metà dei bambini non aveva certo la pelle bianca!»


C. e A. dopo questa esperienza, hanno cambiato scuola.


C. mi porge un altro libro letto ai bimbi e scelto dalla nuova maestra: «Qui si presentano diversi modelli famigliari, bambini adottati, in affido, in case protette, bambini con genitori dello stesso sesso o famiglie allargate. E’ un libro descrittivo. Propone tanti modelli famigliari senza giudizio o spiegazione. Io penso che la scuola dovrebbe rispondere così ai bambini, con semplicità e in tutta franchezza. Ci sono famiglie diverse, ci sono situazioni diverse». C. si ferma e fare il punto della situazione poi riprende.

«Devo dire che alla scuola primaria le maestre ci hanno accolte in altro modo, fortunatamente. Mi aspettavo un po’ meno chiusura da parte dei genitori oppure, ironicamente, un po’ più di ipocrisia, quel tanto che consente di non fare domande imbarazzanti».


C. mi racconta poi delle tante difficoltà che ci sono a livello normativo. Il fatto che il secondo genitore non sia riconosciuto per legge e che abbia sempre bisogno di una delega. Su documenti e difficoltà A., potrebbe continuare per ore, ma a questo punto la nostra conversazione finisce e ci lasciamo.


Laura Branca